Ritorno al De Sanctis. Cosa significa e cosa può e dovrebbe
significare la parola d'ordine di Giovanni Gentile: «Torniamo
al De Sanctis!»? (cfr. tra l'altro il 1° numero del
settimanale «Il Quadrivio»). Significa
«tornare» meccanicamente ai concetti che il De Sanctis
svolse intorno all'arte e alla letteratura, o significa assumere
verso l'arte e la vita un atteggiamento simile a quello assunto dal
De Sanctis ai suoi tempi? Posto questo atteggiamento come
«esemplare», è da vedere: 1) in che sia
consistita tale esemplarità; 2) quale atteggiamento sia oggi
corrispondente, cioè quali interessi intellettuali e morali
corrispondano oggi a quelli che dominarono l'attività del De
Sanctis e le impressero una determinata direzione.
Né si può dire che la biografia del De Sanctis, pur
essendo essenzialmente coerente, sia stata «rettilinea»,
come volgarmente s'intende. Il De Sanctis, nell'ultima fase della
sua vita e della sua attività, rivolse la sua attenzione al
romanzo «naturalista» o «verista» e questa
forma di romanzo, nell'Europa occidentale, fu l'espressione
«intellettualistica» del movimento piú generale
di «andare al popolo», di un populismo di alcuni gruppi
intellettuali sullo scorcio del secolo scorso, dopo il tramonto
della democrazia quarantottesca e l'avvento di grandi masse operaie
per lo sviluppo della grande industria urbana. Del De Sanctis
è da ricordare il saggio Scienza e Vita, il suo passaggio
alla sinistra parlamentare, il suo timore di tentativi forcaioli
velati da forme pompose ecc. Un giudizio del De Sanctis:
«Manca la fibra perché manca la fede. E manca la fede
perché manca la cultura». Ma cosa significa
«cultura» in questo caso? Significa indubbiamente una
coerente, unitaria e di diffusione nazionale, «concezione
della vita e dell'uomo», una «religione laica»,
una filosofia che sia diventata appunto «cultura»,
cioè che ha generato un'etica, un modo di vivere, una
condotta civile e individuale. Ciò domandava innanzi tutto
l'unificazione della «classe colta», e in tal senso
lavorò il De Sanctis con la fondazione del «Circolo
filologico» che avrebbe dovuto determinare «l'unione di
tutti gli uomini colti e intelligenti» di Napoli, ma domandava
specialmente un nuovo atteggiamento verso le classi popolari, un
nuovo concetto di ciò che è «nazionale»,
diverso da quello della destra storica, piú ampio, meno
esclusivista, meno «poliziesco» per cosí dire.
È questo lato dell'attività del De Sanctis che
occorrerebbe lumeggiare, questo elemento della sua attività
che d'altronde non era nuovo ma rappresentava lo sviluppo di germi
già esistenti in tutta la sua carriera di letterato e di uomo
politico.
Arte e lotta per una nuova civiltà. Il rapporto artistico
mostra, specialmente nella filosofia della prassi, la fatua
ingenuità dei pappagalli che credono di possedere in poche
formulette stereotipate, la chiave per aprire tutte le porte (queste
chiavi si chiamano propriamente «grimaldelli»). Due
scrittori possono rappresentare (esprimere) lo stesso momento
storico-sociale, ma uno può essere artista e l'altro un
semplice untorello. Esaurire la quistione limitandosi a descrivere
ciò che i due rappresentano o esprimono socialmente,
cioè riassumendo, piú o meno bene, le caratteristiche
di un determinato momento storico-sociale, significa non sfiorare
neppure il problema artistico. Tutto ciò può essere
utile e necessario, anzi lo è certamente, ma in un altro
campo: in quello della critica politica, della critica del costume,
nella lotta per distruggere e superare certe correnti di sentimenti
e credenze, certi atteggiamenti verso la vita e il mondo; non
è critica e storia dell'arte, e non può essere
presentato come tale, pena il confusionismo e l'arretramento o la
stagnazione dei concetti scientifici, cioè appunto il non
conseguimento dei fini inerenti alla lotta culturale.
Un determinato momento storico-sociale non è mai omogeneo,
anzi è ricco di contraddizioni. Esso acquista
«personalità», è un «momento»
dello svolgimento, per il fatto che una certa attività
fondamentale della vita vi predomina sulle altre, rappresenta una
«punta» storica: ma ciò presuppone una gerarchia,
un contrasto, una lotta. Dovrebbe rappresentare il momento dato, chi
rappresenta questa attività predominante, questa
«punta» storica; ma come giudicare chi rappresenta le
altre attività, gli altri elementi? Non sono
«rappresentativi» anche questi? E non è
«rappresentativo» del «momento» anche chi ne
esprime gli elementi «reazionari» e anacronistici?
Oppure sarà da ritenersi rappresentativo chi esprimerà
tutte le forze e gli elementi in contrasto e in lotta, cioè
chi rappresenta le contraddizioni dell'insieme storico-sociale?
Si può anche pensare che una critica della civiltà
letteraria, una lotta per creare una nuova cultura, sia artistica
nel senso che dalla nuova cultura nascerà una nuova arte, ma
ciò appare un sofisma. In ogni modo è forse partendo
da tali presupposti che si può intendere meglio il rapporto
De Sanctis-Croce e le polemiche sul contenuto e la forma. La critica
del De Sanctis è militante, non «frigidamente»
estetica, è la critica di un periodo di lotte culturali, di
contrasti tra concezioni della vita antagonistiche. Le analisi del
contenuto, la critica della «struttura» delle opere;
cioè della coerenza logica e storico-attuale delle masse di
sentimenti rappresentati artisticamente sono legate a questa lotta
culturale: proprio in ciò pare consista la profonda
umanità e l'umanesimo del De Sanctis, che rendono tanto
simpatico anche oggi il critico. Piace sentire in lui il fervore
appassionato dell'uomo di parte che ha saldi convincimenti morali e
politici e non li nasconde e non tenta neanche di nasconderli. Il
Croce riesce a distinguere questi aspetti diversi del critico che
nel De Sanctis erano organicamente uniti e fusi. Nel Croce vivono
gli stessi motivi culturali che nel De Sanctis, ma nel periodo della
loro espansione e del loro trionfo; continua la lotta, ma per un
raffinamento della cultura (di una certa cultura) non per il suo
diritto di vivere: la passione e il fervore romantico si sono
composti nella serenità superiore e nell'indulgenza piena di
bonomia. Ma anche nel Croce questa posizione non è
permanente: subentra una fase in cui la serenità e
l'indulgenza s'incrinano e affiora l'acrimonia e la collera a stento
repressa: fase difensiva non aggressiva e fervida e pertanto non
confrontabile con quella del De Sanctis.
Insomma, il tipo di critica letteraria propria della filosofia della
prassi è offerto dal De Sanctis, non dal Croce o da chiunque
altro (meno che mai dal Carducci): in essa devono fondersi la lotta
per una nuova cultura, cioè per un nuovo umanesimo, la
critica del costume, dei sentimenti e delle concezioni del mondo con
la critica estetica o puramente artistica nel fervore appassionato,
sia pure nella forma del sarcasmo.
In un tempo recente alla fase De Sanctis ha corrisposto, su un piano
subalterno, la fase della «Voce». Il De Sanctis
lottò per la creazione ex novo in Italia di un'alta cultura
nazionale, in opposizione ai vecchiumi tradizionali, la retorica e
il gesuitismo (Guerrazzi e il padre Bresciani): la
«Voce» lottò solo per la divulgazione, in uno
strato intermedio, di quella stessa cultura, contro il
provincialismo ecc. ecc.: la «Voce» fu un aspetto del
crocismo militante, perché volle democratizzare ciò
che necessariamente era stato «aristocratico» nel De
Sanctis e si era mantenuto «aristocratico» nel Croce. Il
De Sanctis doveva formare uno Stato Maggiore culturale, la
«Voce» volle estendere agli ufficiali subalterni lo
stesso tono di civiltà e perciò ebbe una funzione,
lavorò nella sostanza e suscitò correnti artistiche,
nel senso che aiutò molti a ritrovare se stessi,
suscitò un maggior bisogno di interiorità e di
espressione sincera di essa, anche se dal movimento non fu espresso
nessun grande artista.
(Scritto da Raffaello Ramat nell'«Italia Letteraria» del
4 febbraio 1934: «È stato detto che per la storia della
cultura a volte può maggiormente servire lo studio di uno
scrittore minore che quello d'un sommo; e in parte è pur
vero: perché se in questo – nel sommo – stravince
l'individuo, che finisce col non esser piú di alcun tempo, e
potrebbe darsi il caso – come s'è dato – di attribuire al
secolo qualità proprie dell'uomo; in quello, nel minore, pur
che sia uno spirito attento e autocritico, è dato scorgere i
momenti della dialettica di quella particolare cultura con chiarezza
maggiore, in quanto non riescono, come nel sommo, a
«unificarsi»).
Il problema qui accennato trova un riscontro per assurdo
nell'articolo di Alfredo Gargiulo Dalla cultura alla letteratura,
nell'«Italia Letteraria» del 6 aprile 1930 (sesto
capitolo di uno studio panoramico intitolato 1900-1930 che
sarà probabilmente raccolto in volume e che occorrerà
tener presente per «I nipotini del padre Bresciani»). In
questa serie di articoli il Gargiulo mostra il piú completo
esaurimento intellettuale (uno dei tanti giovani senza
«maturità»): egli si è completamente
incanagliato nella banda dell'«Italia Letteraria» e nel
capitolo citato assume come proprio questo giudizio espresso da G.
B. Angioletti nella prefazione all'antologia Scrittori Nuovi
compilata da Enrico Falqui ed Elio Vittorini: «Gli scrittori
di questa Antologia sono dunque nuovi non perché abbiano
trovato nuove forme o cantato nuovi soggetti, tutt'altro; lo sono
perché hanno dell'arte un'idea diversa da quella degli
scrittori che li precedettero. O, per venir subito all'essenziale,
perché credono all'arte, mentre quelli credevano a molte
altre cose che con l'arte nulla avevano a che vedere. Tale
novità, perciò, può consentire la forma
tradizionale e il contenuto antico; ma non può consentire
deviamenti dall'idea essenziale dell'arte. Quale possa essere questa
idea, non è qui il luogo di ripetere. Ma mi sia consentito
ricordare che gli scrittori nuovi, compiendo una rivoluzione (!) che
per essere stata silenziosa (!) non sarà meno memorabile (!),
intendono di essere soprattutto artisti, laddove i loro predecessori
si compiacevano di essere moralisti, predicatori, estetizzanti,
psicologisti, edonisti, ecc.». Il discorso non è molto
chiaro e ordinato: se qualcosa di concreto se ne può estrarre
è la tendenza a un secentismo programmatico, niente altro.
Questa concezione dell'artista è un nuovo «guardarsi la
lingua» nel parlare, è un nuovo modo di costruire
«concettini». E puri costruttori di concettini, non di
immagini, sono i piú dei poeti esaltati dalla
«banda», con a capo Giuseppe Ungaretti (che tra l'altro
scrive una lingua sufficientemente infranciosata e impropria). Il
movimento della «Voce» non poteva creare artisti, ut
sic, è evidente; ma lottando per una nuova cultura, per un
nuovo modo di vivere, indirettamente promuoveva anche la formazione
di temperamenti artistici originali, poiché nella vita
c'è anche l'arte. La «rivoluzione silenziosa» di
cui parla l'Angioletti è stata solo una serie di
confabulazioni da caffè e di mediocri articoli di giornale
standardizzato e di rivistucole provinciali. La macchietta del
«sacerdote dell'arte» non è una grande
novità anche se muta il rituale.
Arte e cultura. Che si debba parlare, per essere esatti, di lotta
per una «nuova cultura» e non per una «nuova
arte» (in senso immediato) pare evidente. Forse non si
può neanche dire, per essere esatti, che si lotta per un
nuovo contenuto dell'arte, perché questo non può
essere pensato astrattamente, separato dalla forma. Lottare per una
nuova arte significherebbe lottare per creare nuovi artisti
individuali, ciò che è assurdo, poiché non si
possono creare artificiosamente gli artisti. Si deve parlare di
lotta per una nuova cultura, cioè per una nuova vita morale
che non può non essere intimamente legata a una nuova
intuizione della vita, fino a che essa diventi un nuovo modo di
sentire e di vedere la realtà e quindi mondo intimamente
connaturato con gli «artisti possibili» e con le
«opere d'arte possibili». Che non si possa
artificiosamente creare degli artisti individuali non significa
quindi che il nuovo mondo culturale, per cui si lotta, suscitando
passioni e calore di umanità, non susciti necessariamente
«nuovi artisti»; non si può, cioè, dire
che Tizio e Caio diventeranno artisti, ma si può affermare
che dal movimento nasceranno nuovi artisti. Un nuovo gruppo sociale
che entra nella vita storica con atteggiamento egemonico, con una
sicurezza di sé che prima non aveva, non può non
suscitare dal suo intimo personalità che prima non avrebbero
trovato una forza sufficiente per esprimersi compiutamente in un
certo senso.
Cosí non si può dire che si formerà una nuova
«aura poetica», secondo una frase che è stata di
moda qualche anno fa. L'«aura poetica» è solo una
metafora per esprimere l'insieme degli artisti già formatisi
e rivelatisi o almeno il processo iniziato e già consolidato
di formazione e rivelazione.
Per una nuova letteratura (arte) attraverso una nuova cultura. Cfr.
nel volume di B. Croce, Nuovi saggi sulla letteratura italiana del
seicento (1931), il capitolo in cui parla delle accademie gesuitiche
di poesia e le ravvicina alle «scuole di poesia» create
in Russia (il Croce avrà preso lo spunto dal solito
Fülöp-Miller). Ma perché non le avvicina alle
botteghe di pittura e di scultura del '400-500? Erano anche quelle
«accademie gesuitiche»? E perché ciò che
si faceva per la pittura e la scultura non potrebbe farsi per la
poesia? Il Croce non tiene conto dell'elemento sociale che
«vuole avere» una propria poesia, elemento «senza
scuola», cioè che non si è impadronito della
«tecnica» e dello stesso linguaggio: in realtà si
tratta di una «scuola» per adulti, che educa il gusto e
crea il sentimento «critico» in senso largo. Un pittore
che «copia» un quadro di Raffaello fa «accademia
gesuitica»? Egli nel modo migliore «si cala»
nell'arte di Raffaello, cerca di ricrearsela, ecc. E perché
non potrebbero farsi esercizi di versificazione fra operai? Non
servirà ciò a educare l'orecchio alla
musicalità del verso, ecc.?
[L'arte educatrice] «L'arte è educatrice in quanto
arte, ma non in quanto "arte educatrice", perché in tal caso
è nulla, e il nulla non può educare. Certo, sembra che
tutti concordemente desideriamo un'arte che somigli a quella del
Risorgimento e non, per esempio, a quella del periodo dannunziano;
ma, in verità, se ben si consideri, in questo desiderio non
c'è il desiderio di un'arte a preferenza di un'altra,
sí bene di una realtà morale a preferenza di un'altra.
Allo stesso modo chi desideri che uno specchio rifletta una bella
anziché una brutta persona, non si augura già uno
specchio che sia diverso da quello che ha innanzi, ma una persona
diversa». (Croce, Cultura e Vita morale, pp. 169-70; cap. Fede
e programmi del 1911).
«Quando un'opera di poesia o un ciclo di opere poetiche si
è formato, è impossibile proseguire quel ciclo con lo
studio e con l'imitazione e con le variazioni intorno a quelle
opere; per questa via si ottiene solamente la cosiddetta scuola
poetica, il servum pecus degli epigoni. Poesia non genera poesia; la
partenogenesi non ha luogo; si richiede l'intervento dell'elemento
maschile, di ciò che è reale, passionale, pratico,
morale. I piú alti critici di poesia ammoniscono, in questo
caso, di non ricorrere a ricette letterarie, ma, com'essi dicono, di
"rifare l'uomo". Rifatto l'uomo, rinfrescato lo spirito, sorta una
nuova vita di affetti, da essa sorgerà, se sorgerà,
una nuova poesia». (B. Croce, Cultura e Vita morale, pp.
241-42; capitolo Troppa filosofia del 1922).
Questa osservazione può essere propria del materialismo
storico. La letteratura non genera letteratura ecc., cioè le
ideologie non creano ideologie, le superstrutture non generano
superstrutture altro che come eredità di inerzia e di
passività: esse sono generate, non per
«partenogenesi» ma per l'intervento dell'elemento
«maschile» – la storia –l'attività rivoluzionaria
che crea il «nuovo uomo», cioè nuovi rapporti
sociali.
Da ciò si deduce anche questo: che il vecchio
«uomo», per il cambiamento, diventa anch'esso
«nuovo», poiché entra in nuovi rapporti, essendo
stati quelli primitivi capovolti. Donde il fatto che, prima che il
«nuovo uomo» creato positivamente abbia dato poesia, si
possa assistere al «canto del cigno» del vecchio uomo
rinnovato negativamente: e spesso questo canto del cigno è di
mirabile splendore; il nuovo vi si unisce al vecchio, le passioni vi
si arroventano in modo incomparabile ecc. (Non è forse la
Divina Commedia un po' il canto del cigno medioevale, che pure
anticipa i nuovi tempi e la nuova storia?)
Criteri di critica letteraria. Il concetto che l'arte è arte
e non propaganda politica «voluta» e proposta, è
poi, in se stesso, un ostacolo alla formazione di determinate
correnti culturali che siano il riflesso del loro tempo e che
contribuiscano a rafforzare determinate correnti politiche? Non
pare, anzi pare che tale concetto ponga il problema in termini
piú radicali e di una critica piú efficiente e
conclusiva. Posto il principio che nell'opera d'arte sia solamente
da ricercare il carattere artistico, non è per nulla esclusa
la ricerca di quale massa di sentimenti, di quale atteggiamento
verso la vita circoli nell'opera d'arte stessa. Anzi che ciò
sia ammesso dalle moderne correnti estetiche si vede nel De Sanctis
e nello stesso Croce. Ciò che si esclude è che
un'opera sia bella per il suo contenuto morale e politico e non
già per la sua forma in cui il contenuto astratto si è
fuso e immedesimato. Ancora si ricerca se un'opera d'arte non sia
fallita perché l'autore sia stato deviato da preoccupazioni
pratiche esteriori, cioè posticce e insincere. Questo pare il
punto cruciale della polemica: Tizio «vuole» esprimere
artificiosamente un determinato contenuto e non fa opera d'arte. Il
fallimento artistico dell'opera d'arte data (poiché Tizio ha
dimostrato di essere artista in altre opere da lui realmente sentite
e vissute) dimostra che quel tale contenuto in Tizio è
materia sorda e ribelle, che l'entusiasmo di Tizio è fittizio
e voluto esteriormente, che Tizio in realtà non è, in
quel determinato caso, artista, ma servo che vuol piacere ai
padroni. Ci sono dunque due serie di fatti: uno di carattere
estetico, o di arte pura, l'altro di politica culturale (cioè
di politica senz'altro). Il fatto che si giunge a negare il
carattere artistico di un'opera può servire al critico
politico come tale per dimostrare che Tizio come artista non
appartiene a quel determinato mondo politico, e poiché la sua
personalità è prevalentemente artistica, che nella sua
vita intima e piú sua, quel determinato mondo non opera, non
esiste: Tizio pertanto è un commediante della politica, vuol
far credere di essere ciò che non è ecc. ecc. Il
critico politico dunque denuncia Tizio, non come artista, ma come
«opportunista politico». Che l'uomo politico faccia una
pressione perché l'arte del suo tempo esprima un determinato
mondo culturale è attività politica, non di critica
artistica: se il mondo culturale per il quale si lotta è un
fatto vivente e necessario, la sua espansività sarà
irresistibile, esso troverà i suoi artisti. Ma se nonostante
la pressione, questa irresistibilità non si vede e non opera,
significa che si trattava di un mondo fittizio e posticcio,
elucubrazione cartacea di mediocri che si lamentano che gli uomini
di maggior statura non siano d'accordo con loro. Lo stesso modo di
porre la quistione può essere un indizio della saldezza di un
tal mondo morale e culturale: e infatti il cosí detto
«calligrafismo» non è che la difesa di piccoli
artisti che opportunisticamente affermano certi principii ma si
sentono incapaci di esprimerli artisticamente cioè
nell'attività loro propria e allora vaneggiano di pura forma
che è il suo stesso contenuto ecc. ecc. Il principio formale
della distinzione delle categorie spirituali e della loro
unità di circolazione, pur nel suo astrattismo, permette di
cogliere la realtà effettuale e di criticare
l'arbitrarietà e la pseudovita di chi non vuole giocare a
carte scoperte o è semplicemente un mediocre che è
stato dal caso posto a un luogo di comando.
Critica letteraria. Nel fascicolo del marzo 1933
dell'«Educazione Fascista» l'articolo polemico di Argo
con Paul Nizan (Idee d'oltre confine) a proposito della concezione
di una nuova letteratura che sorga da un integrale rinnovamento
intellettuale e morale. Il Nizan pare ponga bene il problema quando
comincia dal definire che cosa è un integrale rinnovamento
delle premesse culturali e limita il campo della ricerca stessa.
L'unica obbiezione fondata di Argo è questa:
l'impossibilità di saltare uno stadio nazionale, autoctono
della nuova letteratura e i pericoli «cosmopolitici»
della concezione del Nizan. Da questo punto di vista molte critiche
del Nizan a gruppi di intellettuali francesi sono da rivedere:
«N. R. F.», il «populismo» ecc., fino al
gruppo del «Monde», non perché le critiche non
colpiscano giusto politicamente, ma appunto perché è
impossibile che la nuova letteratura non si manifesti
«nazionalmente» in combinazioni e leghe diverse,
piú o meno ibride. È tutta la corrente che occorre
esaminare e studiare, obbiettivamente. D'altronde per il rapporto
tra letteratura e politica, occorre tener presente questo criterio:
che il letterato deve avere prospettive necessariamente meno precise
e definite che l'uomo politico, deve essere meno
«settario» se cosí si può dire, ma in modo
«contraddittorio». Per l'uomo politico ogni immagine
«fissata» a priori è reazionaria: il politico
considera tutto il movimento nel suo divenire. L'artista deve invece
avere immagini «fissate» e colate nella loro forma
definitiva. Il politico immagina l'uomo come è e nello stesso
tempo come dovrebbe essere per raggiungere un determinato fine; il
suo lavoro consiste appunto nel condurre gli uomini a muoversi, a
uscire dal loro essere presente per diventare capaci collettivamente
di raggiungere il fine proposto, cioè a
«conformarsi» al fine. L'artista rappresenta
necessariamente «ciò che è» in un certo
momento di personale, di non conformista ecc., realisticamente.
Perciò dal punto di vista politico, il politico non
sarà mai contento dell'artista e non potrà esserlo: lo
troverà sempre in arretrato coi tempi, sempre anacronistico,
sempre superato dal movimento reale. Se la storia è un
continuo processo di liberazione e di autocoscienza, è
evidente che ogni stadio, come storia, in questo caso come cultura,
sarà subito superato e non interesserà piú. Di
ciò mi pare occorra tener conto nel valutare i giudizi del
Nizan sui diversi gruppi.
Ma da un punto di vista obiettivo, come ancora oggi per certi strati
della popolazione è «attuale» Voltaire,
cosí possono essere attuali, e anzi lo sono, questi gruppi
letterari e le combinazioni che essi rappresentano: obiettivo vuol
dire, in questo caso, che lo sviluppo del rinnovamento intellettuale
e morale non è simultaneo in tutti gli strati sociali,
tutt'altro: ancora oggi, giova ripeterlo, molti sono tolemaici e non
copernicani. (Esistono molti «conformismi», molte lotte
per nuovi conformismi, e combinazioni diverse tra ciò che
è, variamente atteggiato, e ciò chi si lavora a far
diventare, e sono molti che lavorano in questo senso). Porsi dal
punto di vista di una «sola» linea di movimento
progressivo, per cui ogni acquisizione nuova si accumula e diventa
la premessa di nuove acquisizioni, è grave errore: non solo
le linee sono molteplici, ma si verificano anche dei passi indietro
nella linea «piú» progressiva. Inoltre il Nizan
non sa porre la quistione della cosí detta «letteratura
popolare», cioè della fortuna che ha in mezzo alle
masse nazionali la letteratura da appendice (avventurosa,
poliziesca, gialla ecc.), fortuna che è aiutata dal
cinematografo e dal giornale. Eppure è questa quistione che
rappresenta la parte maggiore del problema di una nuova letteratura
in quanto espressione di un rinnovamento intellettuale e morale:
perché solo dai lettori della letteratura d'appendice si
può selezionare il pubblico sufficiente e necessario per
creare la base culturale della nuova letteratura. Mi pare che il
problema sia questo: come creare un corpo di letterati che
artisticamente stia alla letteratura d'appendice come Dostojevskij
stava a Sue e a Soulié o come Chesterton, nel romanzo
poliziesco, sta a Conan Doyle e a Wallace ecc. Bisogna a questo
scopo abbandonare molti pregiudizi, ma specialmente occorre pensare
che non si può avere il monopolio, non solo, ma che si ha di
contro una formidabile organizzazione d'interessi editoriali. Il
pregiudizio piú comune è questo: che la nuova
letteratura debba identificarsi con una scuola artistica di origine
intellettuale, come fu per il futurismo. La premessa della nuova
letteratura non può non essere storico-politica, popolare:
deve tendere a elaborare ciò che già esiste,
polemicamente o in altro modo non importa; ciò che importa
è che essa affondi le sue radici nell'humus della cultura
popolare cosí come è, coi suoi gusti, le sue tendenze
ecc., col suo mondo morale e intellettuale sia pure arretrato e
convenzionale.
Ricerca delle tendenze e degli interessi morali e intellettuali
prevalenti tra i letterati. Per quali forme di attività hanno
«simpatia» i letterati italiani? Perché
l'attività economica, il lavoro come produzione individuale e
di gruppo non li interessa? Se nelle opere d'arte si tratta di
argomento economico, è il momento della
«direzione», del «dominio», del
«comando» di un «eroe» sui produttori che
interessa. Oppure interessa la generica produzione, il generico
lavoro in quanto generico elemento della vita e della potenza
nazionale, e quindi motivo di volate oratorie. La vita dei contadini
occupa un maggior spazio nella letteratura, ma anche qui non come
lavoro e fatica, ma dei contadini come «folclore», come
pittoreschi rappresentanti di costumi e sentimenti curiosi e
bizzarri: perciò la «contadina» ha ancora
piú spazio, coi suoi problemi sessuali nel loro aspetto
piú esterno e romantico e perché la donna con la sua
bellezza può facilmente salire ai ceti sociali superiori.
Il lavoro dell'impiegato è fonte inesausta di
comicità: in ogni impiegato si vede l'Oronzo E. Marginati del
vecchio «Travaso». Il lavoro dell'intellettuale occupa
poco spazio, o è presentato nella sua espressione di
«eroismo» e di «superumanismo», con
l'effetto comico che gli scrittori mediocri rappresentano
«genii» della loro propria taglia e, si sa, se un uomo
intelligente può fingersi sciocco, uno sciocco non può
fingersi intelligente.
Non si può certo imporre a una o a piú generazioni di
scrittori di aver «simpatia» per uno o altro aspetto
della vita, ma che una o piú generazioni di scrittori abbiano
certi interessi intellettuali e morali e non altri ha pure un
significato, indica che un certo indirizzo culturale predomina fra
gli intellettuali. Anche il verismo italiano si distingue dalle
correnti realistiche degli altri paesi, in quanto o si limita a
descrivere la «bestialità» della cosí
detta natura umana (un verismo in senso gretto) oppure rivolge la
sua attenzione alla vita provinciale e regionale, a ciò che
era l'Italia reale in contrasto con l'Italia «moderna»
ufficiale: non offre apprezzabili rappresentazioni del lavoro e
della fatica. Per gli intellettuali della tendenza verista la
preoccupazione assillante non fu (come in Francia) di stabilire un
contatto con le masse popolari già
«nazionalizzate» in senso unitario, ma di dare gli
elementi da cui appariva che l'Italia reale non era ancora
unificata: del resto c'è differenza tra il verismo degli
scrittori settentrionali e di quelli meridionali (per esempio Verga,
nel quale il sentimento unitario era molto forte, come appare
dall'atteggiamento assunto nel 1920 verso il movimento autonomista
di «Sicilia Nuova»).
Ma non basta che gli scrittori non ritengano degna di epos
l'attività produttiva che pure rappresenta tutta la vita
degli elementi attivi della popolazione: quando se ne occupano, il
loro atteggiamento è quello del Padre Bresciani.
(Sono da vedere gli scritti di Luigi Russo sul Verga e su G. C.
Abba). G. C. Abba può essere citato come esempio italiano di
scrittore «nazionale-popolare», pur non essendo
«popolaresco» e non facendo parte di nessuna corrente
che critichi per ragioni di partito o settarie la posizione della
classe dirigente. Sono da analizzare non solo gli scritti dell'Abba
che hanno valore poetico, ma anche gli altri, come quello rivolto ai
soldati, che fu premiato dalle autorità governative e
militari e per qualche tempo fu diffuso nell'esercito. Nella stessa
direzione è da ricordare il saggio del Papini pubblicato in
«Lacerba» dopo gli avvenimenti del giugno 1914. La
posizione di Alfredo Oriani è anche da rilevare, ma essa
è troppo astratta e oratoria, e deturpata dal suo titanismo
di genio incompreso. Qualcosa è notevole nell'opera di Piero
Jahier (ricordare le simpatie dello Jahier per il Proudhon), anche
di carattere popolare-militare, mal condita però dallo stile
biblico e claudelliano dello scrittore, che spesso lo rende meno
efficace e indisponente, perché maschera una forma snobistica
di retorica. (Tutta la letteratura di Strapaese dovrebbe essere
«nazionale-popolare» come programma, ma lo è
appunto per programma, ciò che la ha resa una manifestazione
deteriore della cultura: il Longanesi deve anche aver scritto un
libriccino per le reclute, ciò che dimostra come le scarse
tendenze nazionali-popolari nascano forse piú che altro da
preoccupazioni militari). La preoccupazione nazionale-popolare
nell'impostazione del problema critico-estetico e morale-culturale
appare rilevante in Luigi Russo (del quale è da vedere il
volumetto su i Narratori) come risultato di un «ritorno»
alle esperienze del De Sanctis dopo il punto d'arrivo del
crocianesimo.
È da osservare che il brescianesimo in fondo è
individualismo antistatale e antinazionale anche quando e quantunque
si veli di nazionalismo e statalismo frenetico. «Stato»
significa specialmente direzione consapevole delle grandi
moltitudini nazionali; è quindi necessario un
«contatto» sentimentale e ideologico con tali
moltitudini e, in una certa misura, simpatia e comprensione dei loro
bisogni e delle loro esigenze. Ora, l'assenza di una letteratura
nazionale-popolare, dovuta all'assenza di preoccupazioni e di
interesse per questi bisogni ed esigenze, ha lasciato il
«mercato» letterario aperto all'influsso di gruppi
intellettuali di altri paesi, che «popolari-nazionali»
in patria, lo diventano in Italia perché le esigenze e i
bisogni che cercano soddisfare sono simili anche in Italia.
Cosí il popolo italiano si è appassionato, attraverso
il romanzo storico-popolare francese (e continua ad appassionarsi,
come dimostrano anche i piú recenti bollettini librari), alle
tradizioni francesi, monarchiche e rivoluzionarie e conosce la
figura popolaresca di Enrico IV piú che quella di Garibaldi,
la Rivoluzione del 1789 piú che il Risorgimento, le invettive
di Victor Hugo contro Napoleone III piú che le invettive dei
patrioti italiani contro Metternich; si appassiona per un passato
non suo, si serve nel suo linguaggio e nel suo pensiero di metafore
e di riferimenti culturali francesi ecc., è culturalmente
piú francese che italiano.
Per l'indirizzo nazionale-popolare dato dal De Sanctis alla sua
attività critica, è da vedere l'opera di Luigi Russo:
Francesco De Sanctis e la cultura napoletana, 1860-1885, Ed. La
Nuova Italia, 1928 e il saggio del De Sanctis La Scienza e la Vita.
Si può forse dire che il De Sanctis abbia fortemente sentito
il contrasto «Riforma-Rinascimento», cioè appunto
il contrasto tra Vita e Scienza che era nella tradizione italiana
come una debolezza della struttura nazionale-statale e abbia cercato
di reagire contro di esso. Ecco perché ad un certo punto si
stacca dall'idealismo speculativo e si avvicina al positivismo e al
verismo (simpatie per Zola, come il Russo per Verga e Di Giacomo).
Come pare osservi il Russo nel suo libro (cfr. la recensione di G.
Marzot, nella «Nuova Italia» del maggio 1932) «il
segreto dell'efficacia di De Sanctis è tutto da cercare nella
sua spiritualità democratica, la quale lo fa sospettoso e
nemico di ogni movimento o pensiero che assuma carattere
assolutistico e privilegiato [...]; e nella tendenza e nel bisogno
di concepire lo studio come momento di un'attività piú
vasta, sia spirituale che pratica, racchiusa nella formula di un suo
famoso discorso La Scienza e la Vita».
L'antidemocrazia negli scrittori brescianeschi non ha nessun
significato politicamente rilevante e coerente; è la forma di
opposizione a ogni forma di movimento nazionale-popolare,
determinato dallo spirito economico-corporativo di casta, di origine
medioevale e feudale.
Alfredo Oriani. Occorre studiarlo come il rappresentante piú
onesto e appassionato per la grandezza nazionale-popolare italiana
fra gli intellettuali italiani della vecchia generazione. La sua
posizione non è però critica-ricostruttiva, e quindi
tutti i motivi della sua sfortuna e dei suoi fallimenti. In
realtà a chi si richiamava l'Oriani? Non alle classi
dominanti, da cui tuttavia si attendeva riconoscimenti e onori,
nonostante le sue diatribe corrosive. Non ai repubblicani, cui
tuttavia si apparenta la sua forma mentale recriminatoria. La Lotta
politica sembra il manifesto per un grande movimento democratico
nazionale popolare, ma l'Oriani è troppo imbevuto di
filosofia idealistica, quale si venne foggiando nell'epoca della
Restaurazione, per saper parlare al popolo come capo e come eguale
nello stesso tempo, per far partecipare il popolo alla critica di se
stesso e delle sue debolezze senza tuttavia fargli perdere la fede
nella propria forza e nel proprio avvenire. La debolezza dell'Oriani
è in questo carattere meramente intellettuale delle sue
critiche, che creano una nuova forma di dottrinarismo e di
astrattismo. Tuttavia vi è un movimento abbastanza sano di
pensiero che si dovrebbe approfondire. La fortuna di Oriani in
questi ultimi tempi è piú un'imbalsamazione funeraria
che un'esaltazione di nuova vita del suo pensiero.
Il libro di don Chisciotte di E. Scarfoglio (Alfredo Oriani).
È un episodio della lotta per svecchiare la cultura italiana
e sprovincializzarla. In sé il libro è mediocre. Vale
per il tempo e perché forse è stato il primo tentativo
del genere.
Dovendo scrivere su Oriani è da notare il brano che gli
dedica lo Scarfoglio (p. 227 dell'edizione Mondadori, 1925). Per lo
Scarfoglio (che scrive verso il 1884) l'Oriani è un debole,
uno sconfitto, che si consola atterrando tutto e tutti: «Il
signor di Banzole ha la memoria ammucchiata di letture frettolose e
smozzicate, di teoriche male intese e mal digerite, di fantasmi
malamente e fiaccamente formati; di piú, l'instrumento della
lingua non gli sta troppo sicuramente nelle mani». È
interessante una citazione, forse dal libro Quartetto, in cui Oriani
scrive: «Vinto ad ogni battaglia ed insultato come tutti i
vinti, non scesi mai né scenderò mai alla scempiaggine
della replica, alla bassezza del lamento: i vinti hanno
torto». Questo tratto mi pare fondamentale del carattere di
Oriani, che era un velleitario, sempre scontento di tutti
perché nessuno riconosceva il suo genio e che, in fondo,
rinunziava a combattere per imporsi, cioè aveva egli stesso
una ben strana stima di sé. È uno pseudo-titano; e
nonostante certe sue innegabili doti, prevale in lui il «genio
incompreso» di provincia che sogna la gloria, la potenza, il
trionfo, proprio come la signorina sogna il principe azzurro.
Floriano Del Secolo, Contributo alla biografia di Oriani. Con
lettere inedite, nel «Pègaso» dell'ottobre 1930.
Appare l'Oriani nella cosí detta «tragedia» della
sua vita intellettuale di «genio» incompreso dal
pubblico nazionale, di apostolo senza seguaci ecc. Ma fu poi Oriani
«incompreso», o si trattava di una sfinge senza enigmi,
di un vulcano che eruttava solo topolini? E adesso è Oriani
diventato «popolare», «maestro di vita»,
ecc.? Molto si pubblica su di lui, ma l'edizione nazionale delle sue
opere è comprata e letta? C'è da dubitarne. Oriani e
Sorel (in Francia). Ma Sorel è stato enormemente piú
attuale di Oriani. Perché Oriani non riuscí a formarsi
una scuola, un gruppo di discepoli, perché non
organizzò una rivista? Voleva essere
«riconosciuto» senza sforzo da parte sua (oltre ai
lamenti presso gli amici piú intimi). Mancava di
volontà, di attitudini pratiche, e voleva influire sulla vita
politica e morale della nazione. Ciò che lo rendeva
antipatico a molti doveva essere appunto questo giudizio istintivo
che si trattava di un velleitario che voleva essere pagato prima
d'aver compiuto l'opera, che voleva esser riconosciuto
«genio», «capo», «maestro», per
un diritto divino da lui affermato perentoriamente. Certo Oriani
deve essere avvicinato al Crispi come psicologia e a tutto uno
strato di intellettuali italiani, che, in certi rappresentanti
piú bassi, cade nel ridicolo e nella farsa intellettuale.
Croce e la critica letteraria. L'estetica di Croce sta diventando
normativa, sta diventando una «rettorica»? Bisognerebbe
aver letto la sua Aesthetica in nuce (che è l'articolo
sull'estetica dell'ultima edizione dell'Encyclopedia Britannica).
Un'affermazione di essa dice che compito precipuo dell'estetica
moderna ha da essere «la restaurazione e difesa della
classicità contro il romanticismo, del momento sintetico e
formale e teoretico, in cui è il proprio dell'arte, contro
quello affettivo, che l'arte ha per istituto di risolvere in
sé». Questo brano mostra quali siano le preoccupazioni
«morali» del Croce, oltre che le sue preoccupazioni
estetiche, cioè le sue preoccupazioni «culturali»
e quindi «politiche». Si potrebbe domandare se
l'estetica, come scienza, possa avere altro compito oltre quello di
elaborare una teoria dell'arte e della bellezza, dell'espressione.
Qui estetica significa «critica in atto» in
«concreto», ma la critica in atto non dovrebbe solo
criticare, cioè fare la storia dell'arte in concreto, delle
«espressioni artistiche individuali»?
Criteri metodici. Sarebbe assurdo pretendere che ogni anno o anche
ogni dieci anni, la letteratura di un paese produca un Promessi
Sposi o un Sepolcri ecc. Appunto perciò l'attività
critica normale non può avere prevalentemente carattere
«culturale» ed essere una critica di
«tendenze» a meno di diventare un continuo massacro.
E in questo caso, come scegliere l'opera da massacrare, lo scrittore
da dimostrare estraneo all'arte? Pare questo un problema
trascurabile e invece, a rifletterci dal punto di vista
dell'organizzazione moderna della vita culturale, è
fondamentale. Una attività critica che fosse permanentemente
negativa, fatta di stroncature, di dimostrazioni che si tratta di
«non poesia» e non di «poesia», diventerebbe
stucchevole e rivoltante: la «scelta» sembrerebbe una
caccia all'uomo, oppure potrebbe essere ritenuta
«casuale» e quindi irrilevante. Pare certo che
l'attività critica debba sempre avere un aspetto positivo,
nel senso che debba mettere in rilievo, nell'opera presa in esame,
un valore positivo, che se non può essere artistico,
può essere culturale e allora non tanto varrà il
singolo libro – salvo casi eccezionali – quanto i gruppi di lavori
messi in serie per tendenza culturale. Sulla scelta: il criterio
piú semplice, oltre l'intuizione del critico e l'esame
sistematico di tutta la letteratura, lavoro colossale e quasi
impossibile da farsi individualmente, pare quello della
«fortuna libraria», intesa in due sensi: «fortuna
di lettori» e «fortuna presso gli editori» che in
certi paesi dove la vita intellettuale è controllata da
organi governativi, ha pure il suo significato perché indica
quale indirizzo lo Stato vorrebbe dare alla cultura nazionale.
Partendo dai criteri della estetica crociana, si presentano gli
stessi problemi: poiché «frammenti» di poesia
possono trovarsi da per tutto, nell'«Amore Illustrato»
come nell'opera di scienza strettamente specializzata, il critico
dovrebbe conoscere «tutto» per essere in grado di
rilevare la «perla» nel brago. In realtà ogni
singolo critico sente di appartenere a una organizzazione di cultura
che opera come insieme; ciò che sfugge a uno viene
«scoperto» e segnalato da un altro ecc. Anche il
dilagare dei «premi letterari» non è che una
manifestazione, piú o meno bene organizzata, con maggiori o
minori elementi di frode, di questo servizio di
«segnalazione» collettiva della critica letteraria
militante.
È da notare che in certi periodi storici l'attività
pratica può assorbire le maggiori intelligenze creative di
una nazione: in un certo senso, in tali periodi, tutte le migliori
forze umane vengono concentrate nel lavoro strutturale e non ancora
si può parlare di superstrutture: secondo ciò che
scrive il Cambon nella prefazione all'edizione francese
dell'autobiografia di Henri Ford, in America si è costruita
una teoria sociologica su questa base, per giustificare l'assenza,
negli Stati Uniti, di una fioritura culturale umanistica e
artistica. In ogni caso questa teoria, per avere almeno un'apparenza
di giustificazione, deve essere in grado di mostrare una vasta
attività creatrice nel campo pratico, sebbene rimanga senza
risposta la quistione: se questa attività
«poetico-creativa» esiste ed è vitale, esaltando
tutte le forze vitali, le energie, le volontà, gli entusiasmi
dell'uomo, come non esalta l'energia letteraria e non crea un'epica?
Se ciò non avviene, nasce il legittimo dubbio che si tratti
di energie «burocratiche», di forze non espansive
universalmente, ma repressive e brutali: si può pensare che i
costruttori delle Piramidi, schiavi trattati con la frusta,
concepissero liricamente il loro lavoro? Ciò che è da
rilevare è che le forze che dirigono questa grandiosa
attività pratica, non sono repressive solo nei confronti del
lavoro strumentale, ciò che può capirsi, ma sono
repressive universalmente, ciò che appunto è tipico e
fa sí che una certa energia letteraria, come in America, si
manifesti nei refrattari all'organizzazione dell'attività
pratica che si vorrebbe gabellare come «epica» in se
stessa. Tuttavia la situazione è peggiore dove alla
nullità artistica non corrisponde neanche un'attività
pratico-strutturale di una certa grandiosità e si giustifica
la nullità artistica con un'attività pratica che si
«verificherà» e a sua volta produrrà
un'attività artistica.
In realtà ogni forza innovatrice è repressiva nei
confronti dei propri avversari, ma in quanto scatena forze latenti,
le potenzia, le esalta, è espansiva e l'espansività
è di gran lunga il suo carattere distintivo. Le
restaurazioni, con qualsiasi nome si presentino, e in special modo
le restaurazioni che avvengono nell'epoca attuale, sono
universalmente repressive: il «padre Bresciani», la
letteratura brescianesca diventa predominante. La psicologia che ha
preceduto una tale manifestazione intellettuale è quella
creata dal panico, da una paura cosmica di forze demoniache che non
si comprendono e non si possono quindi controllare altro che con una
universale costruzione repressiva. Il ricordo di questo panico
(della sua fase acuta) perdura a lungo e dirige la volontà e
i sentimenti: la libertà e la spontaneità creatrice
spariscono e rimane l'astio, lo spirito di vendetta, l'accecamento
balordo ammantati dalla mellifluità gesuitica. Tutto diventa
pratico (nel senso deteriore), tutto è propaganda, polemica,
negazione implicita, in forma meschina, angusta, spesso ignobile e
rivoltante come nell'Ebreo di Verona.
Quistione della gioventú letteraria di una generazione.
Certo, nel giudicare uno scrittore, di cui si esamina il primo
libro, occorrerà tener conto dell'«età»,
perché il giudizio sarà sempre anche di cultura: un
frutto acerbo di un giovane può essere apprezzato come una
promessa e ottenere un incoraggiamento. Ma i bozzacchioni non sono
promesse, anche se paiono aver lo stesso gusto dei frutti acerbi.
Criteri. Essere un'epoca. Nella «Nuova Antologia» del 16
ottobre 1928 Arturo Calza scrive: «Bisogna cioè
riconoscere che – dal 1914 in qua – la letteratura ha perduto non
solo il pubblico che le forniva gli alimenti (!), ma anche quello
che le forniva gli argomenti. Voglio dire che in questa [nostra]
società europea, la quale traversa ora uno di quei momenti
piú acuti e piú turbinosi di crisi morale e spirituale
che preparano (!) le grandi rinnovazioni, il filosofo, e dunque
anche, necessariamente, il poeta, il romanziere e il drammaturgo,
vedono intorno a sé piuttosto una società "in
divenire" che una società assestata e assodata in uno schema
definitivo (!) di vita morale e intellettuale; piuttosto vaghe e
sempre mutevoli parvenze di costumi e di vita che non vita e costumi
saldamente stabiliti e organizzati; piuttosto semi e germogli, che
non fiori sbocciati e frutti maturati. Ond'è che – come
scriveva in questi giorni egregiamente il Direttore della "Tribuna"
(Roberto Forges Davanzati), e hanno ripetuto poi e anzi
"intensificato" altri giornali – "noi viviamo nella maggiore
assurdità artistica fra tutti gli stili e tutti i tentativi,
senza piú capacità di essere un'epoca"». Quante
parole inutili tra il Calza e il Forges Davanzati. Forse che solo
oggi c'è stata una crisi storica? E non è anzi vero
che proprio nei periodi di crisi storica, le passioni e gli
interessi e i sentimenti si arroventano e si ha in letteratura il
«romanticismo»? Gli argomenti dei due scrittori
zoppicano e si rivoltano contro gli argomentatori: come mai il
Forges Davanzati non si accorge che il non aver capacità di
essere un'epoca non può limitarsi all'arte ma investe tutta
la vita? L'assenza di un ordine artistico (nel senso in cui
può intendersi l'espressione) è coordinata all'assenza
di ordine morale e intellettuale, cioè all'assenza di
sviluppo storico organico. La società gira su se stessa, come
un cane che vuol prendersi la coda, ma questa parvenza di movimento
non è svolgimento.
[L'espressione linguistica della parola scritta e parlata e le altre
arti.] Il De Sanctis in qualche parte scrive che egli, prima di
scrivere un saggio o fare una lezione su un canto di Dante, per
esempio, leggeva parecchie volte ad alta voce il canto, lo studiava
a memoria ecc. ecc. Ciò si ricorda per sostenere
l'osservazione che l'elemento artistico di un'opera non può
essere, eccettuate rare occasioni (e si vedrà quali), gustato
a prima lettura, spesso neppure dai grandi specialisti come era il
De Sanctis. La prima lettura dà solo la possibilità di
introdursi nel mondo culturale e sentimentale dello scrittore, e
neanche questo è sempre vero, specialmente per gli scrittori
non contemporanei, il cui mondo culturale e sentimentale è
diverso dall'attuale: una poesia di un cannibale sulla gioia di un
lauto banchetto di carne umana, può essere concepita come
bella, e domandare per essere artisticamente gustata, senza
pregiudizi «extraestetici», un certo distacco
psicologico dalla cultura odierna. Ma l'opera d'arte contiene anche
altri elementi «storicistici» oltre al determinato mondo
culturale e sentimentale, ed è il linguaggio, inteso non solo
come espressione puramente verbale, quale può essere
fotografato in un certo tempo e luogo dalla grammatica, ma come un
insieme di immagini e modi di esprimersi che non rientrano nella
grammatica. Questi elementi appaiono piú chiaramente nelle
altre arti. La lingua giapponese appare subito diversa dalla lingua
italiana, non cosí il linguaggio della pittura, della musica
e delle arti figurative in genere: eppure esistono anche queste
differenze di linguaggio ed esse sono tanto piú appariscenti
quanto piú dalle manifestazioni artistiche degli artisti si
scende alle manifestazioni artistiche del folklore in cui il
linguaggio di queste arti è ridotto all'elemento piú
autoctono e primordiale (ricordare l'aneddoto del disegnatore che fa
il profilo di un negro e gli altri negri scherniscono il ritrattato
perché il pittore gli ha riprodotto «solo mezza
faccia»). Esiste però, dal punto di vista culturale e
storico, una grande differenza tra l'espressione linguistica della
parola scritta e parlata e le espressioni linguistiche delle altre
arti. Il linguaggio «letterario» è strettamente
legato alla vita delle moltitudini nazionali e si sviluppa
lentamente e solo molecolarmente; se si può dire che ogni
gruppo sociale ha una sua «lingua», tuttavia occorre
notare (salvo rare eccezioni) che tra la lingua popolare e quella
delle classi colte c'è una continua aderenza e un continuo
scambio. Ciò non avviene per i linguaggi delle altre arti,
per i quali, si può notare che attualmente si verificano due
ordini di fenomeni: 1) in essi sono sempre vivi, per lo meno in
quantità enormemente maggiore che per la lingua letteraria,
gli elementi espressivi del passato, si può dire di tutto il
passato; 2) in essi si forma rapidamente una lingua cosmopolita che
assorbe gli elementi tecnico-espressivi di tutte le nazioni che
volta per volta producono grandi pittori, scrittori, musicisti, ecc.
Wagner ha dato alla musica elementi linguistici che tutta la
letteratura tedesca non ha dato in tutta la sua storia, ecc.
Ciò avviene perché il popolo partecipa scarsamente
alla produzione di questi linguaggi, che sono propri di una
élite internazionale ecc., mentre può abbastanza
rapidamente (e come collettività, non come singoli) giungere
alla loro comprensione. Tutto ciò per indicare che realmente
il «gusto» puramente estetico, se può chiamarsi
primario come forma e attività dello spirito, non è
tale praticamente, in senso cronologico, cioè.
È stato detto da taluno (per esempio da Prezzolini, nel
volumetto Mi pare...) che il teatro non può dirsi un'arte ma
uno svago di carattere meccanicistico. Ciò perché gli
spettatori non possono gustare esteticamente il dramma
rappresentato, ma si interessano solo all'intrigo ecc. (o qualcosa
di simile). L'osservazione è falsa nel senso che, nella
rappresentazione teatrale, l'elemento artistico non è dato
solo dal dramma nel senso letterario, il creatore non è solo
lo scrittore: l'autore interviene nella rappresentazione teatrale
con le parole e con le didascalie che limitano l'arbitrio
dell'attore e del régisseur, ma realmente nella
rappresentazione l'elemento letterario diventa occasione a nuove
creazioni artistiche, che da complementari e critico-interpretative
stanno diventando sempre piú importanti: l'interpretazione
dell'autore singolo e il complesso scenico creato dal
régisseur. È giusto però che solo la lettura
ripetuta può far gustare il dramma cosí come l'autore
l'ha prodotto. La conclusione è questa: un'opera d'arte
è tanto piú «artisticamente» popolare
quanto piú il suo contenuto morale, culturale, sentimentale
è aderente alla moralità, alla cultura, ai sentimenti
nazionali, e non intesi come qualcosa di statico, ma come
un'attività in continuo sviluppo. L'immediata presa di
contatto tra lettore e scrittore avviene quando nel lettore
l'unità di contenuto e forma ha la premessa di unità
del mondo poetico e sentimentale: altrimenti il lettore deve
incominciare a tradurre la «lingua» del contenuto nella
sua propria lingua: si può dire che si forma la situazione
come di uno che ha imparato l'inglese in un corso accelerato Berlitz
e poi legge Shakespeare; la fatica della comprensione letterale,
ottenuta con il continuo sussidio di un mediocre dizionario, riduce
la lettura a un esercizio scolastico pedantesco e nulla piú.
Neolalismo. Il neolalismo come manifestazione patologica del
linguaggio (vocabolario) individuale. Ma non si può impiegare
il termine in senso piú generale, per indicare tutta una
serie di manifestazioni culturali, artistiche, intellettuali? Cosa
sono tutte le scuole e scolette artistiche e letterarie se non
manifestazioni di neolalismo culturale? Nei periodi di crisi si
hanno le manifestazioni piú estese e molteplici di
neolalismo. La lingua e i linguaggi. Ogni espressione culturale ha
una sua lingua storicamente determinata, ogni attività morale
e intellettuale: questa lingua è ciò che si chiama
anche «tecnica» e anche «struttura». Se un
letterato si mettesse a scrivere in un linguaggio personalmente
arbitrario (cioè diventasse un «neolalico» nel
senso patologico della parola) e fosse imitato da altri (ognuno con
linguaggio arbitrario) si parlerebbe di Babele. La stessa
impressione non si prova per il linguaggio (tecnica) musicale,
pittorico, plastico ecc. (Questo punto è da meditare e
approfondire). Dal punto di vista della storia della cultura, e
quindi anche della «creazione» culturale (da non
confondersi con la creazione artistica, ma da avvicinare invece alle
attività politiche, e infatti in questo senso si può
parlare di una «politica culturale») tra l'arte
letteraria e le altre forme di espressione artistica (figurative,
musicali, orchestriche ecc.) esiste una differenza che bisognerebbe
definire e precisare in modo teoricamente giustificato e
comprensibile. L'espressione «verbale» ha un carattere
strettamente nazionale-popolare-culturale: una poesia di Goethe,
nell'originale, può essere capita e rivissuta compiutamente
solo da un tedesco (o da chi si è «intedescato»).
Dante può essere capito e rivissuto solo da un italiano colto
ecc. Una statua di Michelangelo, un brano musicale di Verdi, un
balletto russo, un quadro di Raffaello ecc., possono invece essere
capiti quasi immediatamente da qualsiasi cittadino del mondo, anche
di spiriti non cosmopolitici, anche se non ha superato l'angusta
cerchia di una provincia del suo paese. Tuttavia la cosa non
è cosí semplice come potrebbe credersi tenendosi alla
buccia. L'emozione artistica che un giapponese o un lappone prova
dinanzi a una statua di Michelangelo o ascoltando una melodia di
Verdi è certo un'emozione artistica (lo stesso giapponese o
lappone resterebbe insensibile e sordo se ascoltasse la declamazione
di una poesia di Dante, di Goethe, di Shelley o ammirerebbe l'arte
del declamatore come tale); tuttavia l'emozione artistica del
giapponese o del lappone non sarà della stessa
intensità e colore dell'emozione di un italiano medio e tanto
meno di un italiano colto. Ciò che significa che accanto o
meglio al di sotto dell'espressione di carattere cosmopolitico del
linguaggio musicale, pittorico ecc., c'è una piú
profonda sostanza culturale, piú ristretta, piú
«nazionale-popolare». Non basta: i gradi di questo
linguaggio sono diversi; c'è un grado nazionale-popolare (e
spesso prima di questo un grado
provinciale-dialettale-folcloristico), poi il grado di una
determinata «civiltà», che può
determinarsi empiricamente dalla tradizione religiosa (per esempio
cristiana, ma distinta in cattolica, protestante, ortodossa ecc.) e
anche, nel mondo moderno, di una determinata «corrente
culturale-politica». Durante la guerra, per esempio, un
oratore inglese, francese, russo, poteva parlare a un pubblico
italiano, nella sua lingua incompresa, delle devastazioni compiute
dai tedeschi nel Belgio; se il pubblico simpatizzava con l'oratore,
il pubblico ascoltava attentamente e «seguiva»
l'oratore, si può dire che lo «comprendeva».
È vero che nell'oratoria non è solo elemento la
«parola»: c'è il gesto, il tono della voce ecc.,
cioè un elemento musicale che comunica il leitmotiv del
sentimento predominante, della passione principale e l'elemento
orchestrico: il gesto in senso largo che scandisce e articola l'onda
sentimentale e passionale.
Per stabilire una politica di cultura queste osservazioni sono
indispensabili; per una politica di cultura delle masse popolari
esse sono fondamentali. Ecco la ragione del «successo»
internazionale del cinematografo modernamente e, prima, del
melodramma e della musica in generale.
Sincerità (o spontaneità) e disciplina. La
sincerità (o spontaneità) è sempre un pregio e
un valore? È un pregio e un valore se disciplinata.
Sincerità (e spontaneità) significa massimo di
individualismo, ma anche nel senso di idiosincrasia
(originalità in questo caso è uguale a idiotismo).
L'individuo è originale storicamente quando dà il
massimo di risalto e di vita alla «socialità»,
senza cui egli sarebbe un «idiota» (nel senso
etimologico, che però non si allontana dal senso volgare e
comune). C'è dell'originalità, della
personalità, della sincerità un significato romantico,
e questo significato è giustificato storicamente in quanto
nacque in opposizione con un certo conformismo essenzialmente
«gesuitico»: cioè un conformismo artificioso,
fittizio, creato superficialmente per gli interessi di un piccolo
gruppo o cricca, non di una avanguardia. C'è un conformismo
«razionale» cioè rispondente alla
necessità, al minimo sforzo per ottenere un risultato utile e
la disciplina di tale conformismo è da esaltare e promuovere,
è da fare diventare «spontaneità» o
«sincerità». Conformismo significa poi niente
altro che «socialità», ma piace impiegare la
parola «conformismo» appunto per urtare gli imbecilli.
Ciò non toglie la possibilità di formarsi una
personalità e di essere originali, ma rende piú
difficile la cosa. È troppo facile essere originali facendo
il contrario di ciò che fanno tutti; è una cosa
meccanica. È troppo facile parlare diversamente dagli altri,
essere neolalici, il difficile è distinguersi dagli altri
senza perciò fare delle acrobazie. Avviene proprio oggi che
si cerca una originalità e personalità a poco prezzo.
Le carceri e i manicomi sono pieni di uomini originali e di forte
personalità. Battere l'accento sulla disciplina, sulla
socialità, e tuttavia pretendere sincerità,
spontaneità, originalità, personalità: ecco
ciò che è veramente difficile e arduo. Né si
può dire che il conformismo è troppo facile e riduce
il mondo a un convento. Intanto: qual è il «vero
conformismo», cioè qual è la condotta
«razionale» piú utile, piú libera in
quanto ubbidisce alla «necessità»? Cioè
quale è la «necessità»? Ognuno è
portato a far di sé l'archetipo della «moda»,
della «socialità» e a porsi come
«esemplare». Pertanto la socialità, il
conformismo, è il risultato di una lotta culturale (e non
solo culturale), è un dato «oggettivo» o
universale, cosí come non può non essere oggettiva e
universale la «necessità» su cui si innalza
l'edificio della libertà. Libertà e arbitrio, ecc.
Nella letteratura (arte) contro la sincerità e
spontaneità si trova il meccanismo o calcolo, che può
essere un falso conformismo, una falsa socialità, cioè
l'adagiarsi nelle idee fatte e abitudinarie. Ricordare l'esempio
classico di Nino Berrini che «scheda» il passato e cerca
l'originalità nel fare ciò che non appare nelle
schede. Principii del Berrini per il teatro: 1) lunghezza del
lavoro: fissare la media della lunghezza, stabilendola su quei
lavori che hanno avuto successo; 2) studio dei finali. Quali finali
hanno avuto successo e strappato l'applauso? 3) studio delle
combinazioni: per esempio nel dramma sessuale borghese, marito,
moglie, amante, vedere quali combinazioni [sono] piú
sfruttate, e per esclusione «inventare» nuove
combinazioni, meccanicamente trovate. Cosí il Berrini aveva
trovato che un dramma non deve avere piú di 50.000 parole,
cioè non deve durare piú di un tanto tempo. Ogni atto
o ogni scena principale deve culminare in un modo dato e questo modo
è studiato sperimentalmente, secondo una media di quei
sentimenti e di quegli stimoli che tradizionalmente hanno avuto
successo, ecc. Con questi criteri è certo che non si possono
avere catastrofi commerciali. Ma è questo
«conformismo», o «socialità», nel
senso detto? Certo no. È un adagiarsi nel già
esistente.
La disciplina è anche uno studio del passato, in quanto il
passato è elemento del presente e del futuro, ma non elemento
«ozioso», ma necessario, in quanto è linguaggio,
cioè elemento di «uniformità» necessaria,
non di uniformità «oziosa», impigrita.
[Letteratura «funzionale».] Cosa corrisponde in
letteratura al «razionalismo» architettonico? Certamente
la letteratura «secondo un piano», cioè là
letteratura «funzionale», secondo un indirizzo sociale
prestabilito. È strano che in architettura il razionalismo
sia acclamato e giustificato e non nelle altre arti. Ci deve essere
un equivoco. Forse che l'architettura sola ha scopi pratici? Certo
apparentemente cosí pare, perché l'architettura
costruisce le case d'abitazione, ma non si tratta di questo: si
tratta di «necessità». Si dirà che le case
sono piú necessarie che non le altre arti e si vuol dire solo
che le case sono necessarie per tutti, mentre le altre arti sono
necessarie solo per gli intellettuali, per gli uomini di coltura. Si
dovrebbe concludere che proprio i «pratici» si
propongono di rendere necessarie tutte le arti per tutti gli uomini,
di rendere tutti «artisti». Ancora. La coercizione
sociale! Quanto si blatera contro questa coercizione. Non si pensa
che essa è una parola! La coercizione, l'indirizzo, il piano,
sono semplicemente un terreno di selezione degli artisti, nulla
piú: e da scegliere per scopi pratici, cioè in un
campo in cui la volontà e la coercizione sono perfettamente
giustificate. Sarebbe da vedere se la coercizione non è
sempre esistita! Perché è esercitata inconsciamente
dall'ambiente e dai singoli e non da un potere centrale o da una
forza centralizzata non sarebbe forse coercizione? Si tratta in
fondo sempre di «razionalismo» contro l'arbitrio
individuale. Allora la quistione non verte sulla coercizione, ma sul
fatto se si tratta di razionalismo autentico, di reale
funzionalità, o di atto d'arbitrio, ecco tutto. La
coercizione è tale solo per chi non l'accetta, non per chi
l'accetta: se la coercizione si sviluppa secondo lo sviluppo delle
forze sociali non è coercizione, ma «rivelazione»
di verità culturale ottenuta con un metodo accelerato. Si
può dire della coercizione ciò che i religiosi dicono
della determinazione divina: per i «volenti» essa non
è determinazione, ma libera volontà. In realtà
la coercizione in parola è combattuta perché si tratta
di una lotta contro gli intellettuali e contro certi intellettuali,
quelli tradizionali e tradizionalisti, i quali, tutto al piú,
ammettono che le novità si facciano strada a poco a poco,
gradualmente. È curioso che in architettura si contrappone il
razionalismo al «decorativismo», e questo viene chiamato
«arte industriale». È curioso, ma giusto. Infatti
dovrebbe chiamarsi sempre industriale qualsiasi manifestazione
artistica che è diretta a soddisfare i gusti di singoli
compratori ricchi, ad «abbellire» la loro vita, come si
dice. Quando l'arte, specialmente nelle sue forme collettive,
è diretta a creare un gusto di massa, ad elevare questo
gusto, non è «industriale», ma disinteressata,
cioè arte. Mi pare che il concetto di razionalismo in
architettura, cioè di «funzionalismo», sia molto
fecondo di conseguenze di principi di politica culturale; non
è casuale che esso sia nato proprio in questi tempi di
«socializzazioni» (in senso vasto) e di interventi di
forze centrali per organizzare le grandi masse contro i residui di
individualismo e di estetiche dell'individualismo nella politica
culturale.
[Il razionalismo nell'architettura.] Quistioni di nomi. È
evidente che in architettura «razionalismo» significa
semplicemente «moderno»: è anche evidente che
«razionale» non è altro che un modo di esprimere
il bello secondo il gusto di un certo tempo. Che ciò sia
avvenuto nell'architettura prima che in altre arti si capisce,
perché l'architettura è «collettiva» non
solo come «impiego», ma come «giudizio». Si
potrebbe dire che il «razionalismo» è sempre
esistito, cioè che si è sempre cercato di raggiungere
un certo fine secondo un certo gusto e secondo le conoscenze
tecniche della resistenza e dell'adattabilità del
«materiale».
Di quanto e del come il «razionalismo» dell'architettura
possa diffondersi nelle altre arti è quistione difficile e
che sarà risolta dalla «critica dei fatti»
(ciò che non vuol dire che sia inutile la critica
intellettuale ed estetica che prepara quella dei fatti). Certo
è che l'architettura pare di per sé, e per le sue
connessioni immediate col resto della vita, la piú
riformabile e «discutibile» delle arti. Un quadro o un
libro o una statuina, può tenersi in luogo
«personale» per il gusto personale; non cosí una
costruzione architettonica. È anche da ricordare
indirettamente (per ciò che vale in questo caso)
l'osservazione del Tilgher che l'opera d'architettura non può
essere messa alla stregua delle altre opere d'arte per il
«costo», l'ingombro, ecc... Distruggere un'opera
costruttiva, cioè fare e rifare, tentando e riprovando, non
si adatta molto all'architettura.
È giusto che lo studio della funzione non è
sufficiente, pur essendo necessario, per creare la bellezza: intanto
sulla stessa «funzione» nascono discordie, cioè
anche l'idea e il fatto di funzione è individuale o dà
luogo a interpretazioni individuali. Non è poi detto che la
«decorazione» non sia «funzionale» e si
intende «decorazione» in senso largo, per tutto
ciò che non è strettamente «funzionale»
come la matematica. Intanto la «razionalità»
porta alla «semplificazione», ciò che è
già molto. (Lotta contro il secentismo estetico che appunto
è caratterizzato dal prevalere dell'elemento esternamente
decorativo su quello «funzionale» sia pure in senso
largo, cioè di funzione in cui sia compresa la
«funzione estetica»). È molto che si sia giunti
ad ammettere che l'«architettura è l'interpretazione di
ciò che è pratico». Forse questo potrebbe dirsi
di tutte le arti che sono una «determinata interpretazione di
ciò che è pratico», dato che all'espressione
«pratico» si tolga ogni significato «deteriore,
giudaico» (o piattamente borghese: è da notare che
«borghese» in molti linguaggi significa solo
«piatto, mediocre, interessato», cioè ha assunto
il significato che una volta aveva l'espressione
«giudaico»: tuttavia questi problemi di linguaggio hanno
importanza, perché linguaggio = pensiero, modo di parlare
indica modo di pensare e di sentire non solo ma anche di esprimersi,
cioè di far capire e sentire). Certo per le altre arti le
quistioni di «razionalismo» non si pongono nello stesso
modo che per l'architettura, tuttavia il «modello»
dell'architettura è utile, dato che a priori si deve
ammettere che il bello è sempre tale e presenta gli stessi
problemi, qualunque sia l'espressione formale particolare di esso.
Si potrebbe dire che si tratta di «tecnica», ma tecnica
non è che espressione e il problema rientra nel suo circolo
iniziale con diverse parole.
L'architettura nuova. Speciale carattere obbiettivo
dell'architettura. Realmente l'«opera d'arte» è
il «progetto» (l'insieme dei disegni e dei piani e dei
calcoli, coi quali persone diverse dall'architetto
«artista-progettista» possono realizzare l'edifizio,
ecc.): un architetto può essere giudicato grande artista dai
suoi piani, anche senza aver edificato materialmente nulla. Il
progetto sta all'edifizio materiale come il
«manoscritto» sta al libro stampato: l'edifizio è
l'estrinsecazione sociale dell'arte, la sua
«diffusione», la possibilità data al pubblico di
partecipare alla bellezza (quando è tale), cosí come
il libro stampato.
Cade l'obbiezione del Tilgher al Croce a proposito della
«memoria» come causa dell'estrinsecazione artistica:
l'architetto non ha bisogno dell'edifizio per
«ricordare» ma del progetto. Ciò sia detto anche
solo considerando la «memoria» crociana come
approssimazione relativa nel problema del perché il pittore
dipinge, lo scrittore scrive ecc. e non si accontenta di costruire
fantasmi per solo suo uso e consumo: e tenendo conto che ogni
progetto architettonico ha un carattere di
«approssimazione» maggiore che il manoscritto, la
pittura ecc. Anche lo scrittore introduce innovazioni per ogni
edizione del libro (o corregge le bozze modificando ecc., cfr.
Manzoni): nell'architettura la quistione è piú
complessa, perché l'edifizio è compiuto mai in
sé completamente, ma deve avere degli adattamenti anche in
rapporto al «panorama» in cui viene inserito ecc. (e non
si possono fare di esso delle seconde edizioni cosí
facilmente come di un libro ecc.). Ma il punto piú importante
da osservare oggi è questo: che in una civiltà a
rapido sviluppo, in cui il «panorama» urbano deve essere
molto «elastico», non può nascere una grande arte
architettonica, perché è piú difficile pensare
edifizi fatti per l'«eternità». In America si
calcola che un grattacielo debba durare non piú di 25 anni,
perché si suppone che in 25 anni l'intera città
«possa» mutare fisionomia, ecc. ecc. Secondo me, una
grande arte architettonica può nascere solo dopo una fase
transitoria di carattere «pratico», in cui cioè
si cerchi solo di raggiungere la massima soddisfazione ai bisogni
elementari del popolo col massimo di convenienze: ciò inteso
in senso largo, non cioè solo per quanto riguarda il singolo
edifizio, la singola abitazione o il singolo luogo di riunione per
grandi masse, ma in quanto riguarda un complesso architettonico, con
strade, piazze, giardini, parchi, ecc.
Adriano Tilgher, Perché l'artista scrive o dipinge, o
scolpisce, ecc.?, nell'«Italia che scrive» del febbraio
1929.
Articolo tipico della incongruenza logica e della leggerezza morale
del Tilgher, il quale dopo aver «sfottuto» banalmente la
teoria del Croce in proposito, alla fine dell'articolo la ripresenta
tale e quale come sua, in una forma fantasiosa e immaginifica. Dice
il Tilgher che secondo il Croce «l'estrinsecazione fisica
[...] del fantasma artistico ha scopo essenzialmente
mnemonico», ecc. Questo argomento è da vedere: cosa
significa per il Croce in questo caso «memoria»? Ha un
valore puramente personale, individuale, o anche di gruppo? Lo
scrittore si preoccupa solo di sé o storicamente è
portato a pensare anche agli altri? ecc.
Alcuni criteri di giudizio «letterario». Un lavoro
può essere pregevole: 1) perché espone una nuova
scoperta che fa progredire una determinata attività
scientifica. Ma non solo l'«originalità» assoluta
è un pregio. Può infatti avvenire: 2) che fatti ed
argomenti già noti siano stati scelti e disposti secondo un
ordine, una connessione, un criterio piú adeguato e probante
di quelli precedenti. La struttura (l'economia, l'ordine) di un
lavoro scientifico può essere «originale» essa
stessa. 3) I fatti e gli argomenti già noti possono aver dato
luogo a considerazioni «nuove», subordinate, ma tuttavia
importanti.
Il giudizio «letterario» deve, evidentemente, tener
conto dei fini che un lavoro si è proposto: di creazione e
riorganizzazione scientifica, di divulgazione dei fatti ed argomenti
noti in un determinato gruppo culturale, di un determinato livello
intellettuale e culturale ecc. Esiste perciò una tecnica
della divulgazione che occorre adattare volta per volta e
rielaborare: la divulgazione è un atto eminentemente pratico,
in cui occorre esaminare la conformità dei mezzi al fine,
cioè appunto la tecnica adoperata. Ma anche l'esame e il
giudizio del fatto e dell'argomentazione «originale»,
ossia dell'«originalità» dei fatti (concetti -
nessi di pensiero) e degli argomenti sono molto difficili e
complessi e richiedono le piú ampie cognizioni storiche.
È da vedere nel capitolo dal Croce dedicato al Loria questo
criterio: «Altro è metter fuori una osservazione
incidentale, che si lascia poi cadere senza svolgerla, ed altro
stabilire un principio di cui si sono scorte le feconde conseguenze;
altro enunciare un pensiero generico ed astratto ed altro pensarlo
realmente e in concreto; altro, finalmente, inventare, ed altro
ripetere di seconda o di terza mano». Si presentano i casi
estremi: di chi trova che non c'è mai stato nulla di nuovo
sotto il sole e che tutto il mondo è paese, anche nella sfera
delle idee e di chi invece trova «originalità» a
tutto spiano e pretende sia originale ogni rimasticatura per via
della nuova saliva. Il fondamento di ogni attività critica
pertanto deve basarsi sulla capacità di scoprire la
distinzione e le differenze al di sotto di ogni superficiale e
apparente uniformità e somiglianza, e l'unità
essenziale al disotto di ogni apparente contrasto e differenziazione
alla superficie. (Che occorra, nel giudicare un lavoro, tener conto
del fine che l'autore si propone esplicitamente, non significa certo
perciò che debba essere sottaciuto o misconosciuto o
svalutato un qualsiasi apporto reale dell'autore, anche se in
opposizione al fine proposto. Che Cristoforo Colombo si proponesse
di andare «a la busca del Gran Khan», non sminuisce il
valore del suo viaggio reale e delle sue reali scoperte per la
civiltà europea).
Criteri metodologici. Nell'esaminare criticamente una
«dissertazione» può essere quistione: 1) di
valutare se l'autore dato ha saputo con rigore e coerenza dedurre
tutte le conseguenze dalle premesse che ha assunto come punto di
partenza (o di vista): può darsi che manchi il rigore, che
manchi la coerenza, che ci siano omissioni tendenziose, che manchi
la «fantasia» scientifica (che cioè non si sappia
vedere tutta la fecondità del principio assunto ecc.); 2) di
valutare i punti di partenza (o di vista), le premesse, che possono
essere negate in tronco, o limitate, o dimostrate non piú
valide storicamente; 3) di ricercare se le premesse sono omogenee
tra loro, o se, per incapacità o insufficienza dell'autore (o
ignoranza dello stato storico della quistione) è avvenuta
contaminazione tra premesse o principii contradditori o eterogenei o
storicamente non avvicinabili. Cosí la valutazione critica
può avere diversi fini culturali (o anche polemico-politici):
può tendere a dimostrare che Tizio individualmente è
incapace e nullo; che il gruppo culturale a cui Tizio appartiene
è scientificamente irrilevante; che Tizio il quale
«crede» o pretende di appartenere a un gruppo culturale,
si inganna o vuole ingannare, che Tizio si serve delle premesse
teoriche di un gruppo rispettabile per trarre deduzioni tendenziose
e particolaristiche ecc.